Perché la diagnostica è fondamentale
Nel contesto clinico, vi è un dibattito su come valutare il benessere psicologico. Spesso, in questo frangente, si tende a contrappore l'approccio medico a quello psicologico, percepito dall'utenza come meno quantitativo e più umanistico. In realtà non è affatto così. Da un lato, gli psicologi sono tenuti a conoscere ed utilizzare i manuali nosografici propri della psichiatria, non diversamente dai medici stessi; inoltre, generalmente, gli psicologi svolgono valutazione clinica utilizzando un approccio quantitativo ed evidence-based. Vengono infatti utilizzati interviste, test e questionari standardizzati per andare a quantificare quali domini psicologici del paziente presentino dei valori anomali rispetto alla tendenza della popolazione generale. Inoltre, spesso, gli psicologi utilizzano anche metodologie psicofisiologiche e comportamentali nella valutazione del benessere psicologico.
Quando un paziente cerca aiuto presso uno specialista della salute mentale, generalmente, cerca un professionista che lo aiuti, e che lo faccia in fretta. Se è vero che spesso i casi più urgenti necessitano di intervento immediato, nella maggioranza dei casi è invece auspicabile che il professionista si occupi prima di svolgere un'analisi approfondita del funzionamento psicologico del paziente. Per fare ciò, è necessario che sviluppi con il paziente un rapporto di stretta cooperazione in cui il paziente si sente pronto a poter condividere con lo specialista i suoi pensieri, le sue paure e, più in generale, possa raccontare le proprie esperienze di vita, con la finalità di comprendere meglio il suo stesso funzionamento. È dunque all'interno di questo contesto relazionale che lo psicologo raccoglierà dati anamnestici, e utilizzerà strumenti di assessment specifici per classificare il comportamento del paziente e al tempo stesso comprenderne il funzionamento nel modo più completo possibile. Solo quando questo sarà possibile, si potrà passare alla fase successiva. Come potrebbe essere altrimenti possibile pianificare un trattamento che sia adatto al paziente, senza prima comprendere quali siano le dinamiche emotive, cognitive, comportamentali e contestuali che contribuiscono al suo stato di sofferenza?
L'approccio categoriale
Con approccio categoriale si intende l'approccio derivato dall'utilizzo dei manuali nosografici, quali il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders)1 o l'ICD (International Classification of Diseases)2. Entrambi i manuali presentano un elenco di categorie diagnostiche (diverse centinaia), per ognuna delle quali sono elencati un numero variabile di criteri. Per poter emettere una diagnosi, sarà necessario che il paziente presenti almeno un certo numero di criteri su quelli totali. Facciamo subito un esempio concreto. Nel DSM-5, la Depressione Maggiore è definita sulla base di 9 criteri (segni e sintomi) possibili; qualora il paziente ne presenti almeno 5 per una durata di almeno 2 settimane, si potrà procedere con la diagnosi. Per quasi tutte le categorie del DSM la logica è molto simile. Viene inoltre spesso specificato che risulta necessario che i criteri siano accompagnati da grave sofferenza o marcata disfunzionalità in aree rilevanti per il paziente, quali il lavoro, le relazioni sociali o sentimentali.
Risulta chiaro che questo approccio sia fondamentale: quello che si è andato a creare, nei decenni, è un approccio semplice alla classificazione delle problematiche psicologiche delle persone. Ciò consente a psichiatri e psicologi di avere un dizionario comune per riferirsi a quadri sintomatologici analoghi. Spesso, infatti, pazienti con caratteristiche simili presentano un decorso analogo, e necessitano di trattamenti specifici.
Vi sono però numerosi aspetti controversi. Da un punto di vista prettamente concettuale, questo approccio implica che la sofferenza psichica sia classificabile in compartimenti stagni: ogni categoria dovrebbe essere mutualmente esclusiva e i disturbi, quindi, rappresentano manifestazioni categoricamente diverse l'una dalle altre. In realtà, ciò che accade spesso è che un paziente presenti stati sintomatologici propri di sindromi distinte, quel fenomeno noto come "comorbidità", che porta alla diagnosi simultanea di 2 o 3 disturbi distinti3,4,5. Inoltre, per come sono strutturati, possiamo anche avere centinaia di combinazioni sintomatologiche per la stessa sindrome6,7. Questo approccio, inoltre, non tiene in considerazione l'enorme variabilità relativa ai pensieri e ai comportamenti individuali e a come questi si relazionano con i segni e i sintomi esperiti dal paziente: non comprende cioè una valutazione globale del funzionamento psicologico del paziente8.
L'approccio dimensionale e la psicometria
Nell'approccio dimensionale non si è interessati tanto a determinare se una persona soffra o meno di un certo disturbo, quanto piuttosto a valutare quanto quella persona ne soffra9,10. Questo implica che sia necessario stabilire dei criteri per identificare una variazione dimensionale dell'intensità relativamente ad ogni disturbo. Più propriamente, l'approccio dimensionale può anche prescindere in toto dall'approccio categoriale. In questo caso non ci si focalizzerà sulla variazione dimensionale di una sindrome, quanto piuttosto a come e quanto le caratteristiche individuali del paziente varino lungo un continuum. In questo contesto è utilissima la valutazione psicometrica, che, tramite l'ausilio di questionari specifici, ci consente di misurare innumerevoli variabili psicologiche: tratti di personalità, stati dell'umore, capacità di controllare la propria emotività, classi di comportamenti, e molto altro ancora11. Qual è la logica sottesa a questo approccio? Se migliaia di persone rispondono ad un questionario, è possibile stimare la distribuzione di probabilità del fenomeno che il questionario intende indagare. In questo modo, è possibile stimare quindi quale sia la tendenza centrale della nostra popolazione di interesse, e anche di visualizzare quale sia la performance del paziente in relazione alla popolazione generale. Sarà quindi possibile stabilire dei cut-off che ci indicheranno quando il paziente avrà totalizzato un punteggio significativamente deviante rispetto alla tendenza della popolazione generale.
La possibilità di valutare come determinate variabili psicologiche varino lungo un continuum è sicuramente utile e speculare all'approccio categoriale. Tuttavia, questo approccio non è in grado di andare a spiegare il funzionamento del paziente, ovverosia come queste dimensioni interagiscano tra loro e come questo sistema contribuisca al mantenimento dello stato di sofferenza e alle disfunzionalità lamentate dal paziente. Al più, quello che ci consente di fare, è confrontare il quadro clinico e la performance ai test del paziente con diversi studi in letteratura, per poter iniziare a formulare delle ipotesi cliniche.
L'approccio prototipale
Nell'approccio prototipale si valuta quanto le manifestazioni cliniche di un paziente matchino una descrizione scritta delle caratteristiche di un prototipo di un dato disturbo, valutando lungo un continuum (per es., da 1 a 5) il grado di rassomiglianza12. Qualora il clinico, sulla base (ovviamente) di procedure di scoring prestabilite e precedentemente validate, stabilisca che le problematiche del paziente risultino estremamente simili a quelle del prototipo (ad es., qualora si totalizzi un punteggio superiore od uguale a 4), si procederà simultaneamente alla diagnosi del disturbo in chiave categoriale13. È chiaro quindi che questo approccio presenti (quantomeno potenzialmente) notevoli vantaggi rispetto agli approcci di cui sopra, considerato che, de facto, ne rappresenta un'astuta integrazione. Un esempio di questo approccio è dato dalla SWAP-200, uno strumento utilissimo per poter valutare i disturbi di personalità, elaborato da Shedler e Westen14.
Metodi idiografici
Gli approcci diagnostici più classici, purtroppo, poco ci dicono su come il paziente viva quotidianamente la sua condizione di sofferenza. Facciamo un esempio concreto. Supponiamo che un paziente abbia ricevuto la diagnosi di Disturbo di Personalità Borderline. Dato questo livello diagnostico, possiamo trarre delle inferenze utili su come quello specifico paziente si comporta tutti i giorni? Se leggessimo un articolo scientifico che illustra il decorso tipico delle persone che ricevono tale diagnosi, possiamo ipso facto estendere queste previsioni al comportamento del paziente? La risposta ad entrambe le domande è no. Sebbene sia utile classificare il comportamento del paziente rispetto a standard generali, le ricerche condotte su ampi campioni possono solamente consentirci di raccogliere spunti e insight utili sul paziente, ma non ci aiutano di certo a capire come questa persona, nel suo quotidiano, esprima la sua sofferenza e, in generale, come imposti la sua vita15,16.
Da qui, la necessità, da un lato, di integrare molteplici fonti di informazioni, sia tramite colloquio, sia tramite test ed attraverso i questionari. Più abbiamo una visione ampia, più è possibile comprendere da vicino le dinamiche che coinvolgono il paziente. Ma non basta. Serve un qualcosa che ci consenta di indagare giorno per giorno cosa avviene nella vita del paziente. Purtroppo, è stato dimostrato che fare affidamento unicamente ai dati riportati dal paziente durante la seduta settimanale non è sufficiente: infatti, i processi mnestici umani sono soggetti a diverse tipologie di bias, che inficiano il recupero delle informazioni in modo selettivo, andando spesso a distorcere (od omettere) la reale frequenza di un fenomeno17,18. Nei decenni, alcuni psicologi hanno fatto uso (e alcuni ancora tutt'ora) di diari, che il paziente compila tutti i giorni e il clinico leggerà in un secondo momento, prima del colloquio, o assieme al paziente stesso, durante il colloquio19. Questo approccio consente di ottenere delle informazioni qualitativamente interessanti e utili sul piano clinico. Ma è invece possibile utilizzare un approccio quantitativo per valutare il funzionamento quotidiano del paziente? Sì.
Il metodo corretto per poter andare ad indagare (e testare) la relazione temporale tra variabili psicologiche si fonda sulla rilevazione in tempo-reale dei processi di interesse20,21, ed è oggi reso più semplice grazie agli Smartphone e a numerose app sviluppate proprio a questo scopo. Seguendo questo approccio, il paziente registrerà quotidianamente la frequenza di messa in atto di alcuni comportamenti, oppure risponderà a brevi questionari. Che si campionino comportamenti direttamente osservabili, o che si indaghi la percezione cosciente del paziente su alcune dimensioni più astratte, questo metodo consente di visualizzare i trend e di modellizzare quantitativamente la relazione tra tutti questi aspetti, consentendo di elaborare analisi statistiche sulla persona stessa, andando a vedere quali sintomi assumono una rilevanza centrale nella rete, quali sintomi precedono l'insorgenza di altri, e potendo così prevedere il decorso della sintomatologia in modo più affidabile e preciso.
In conclusione
Poter classificare il comportamento umano sulla base di convenzioni d'ordine generale è fondamentale ed utile, poiché rappresenta un inquadramento semplice e condiviso su cui i clinici lavorano da decenni. Ricevere una diagnosi con un manuale quali il DSM, non implica però appartenere ad una categoria discreta, né tantomeno implica che tale condizione sia organica, immutabile od eterna. Al tempo stesso, non consente di comprendere il funzionamento della persona in quanto tale. Purtroppo, spesso, si osservano due comuni errori: il rifiuto dell'utilizzo delle diagnosi categoriali da un lato, e l'eccessiva fede verso tali strumenti dall'altro. Ad oggi, esistono numerosi approcci sia per poter classificare il comportamento umano, sia per poter andare a comprendere in che modo il paziente esperisca (e si relazioni con) determinate problematiche nel suo vissuto quotidiano. Qualora possibile, risulta ottimale poter integrare questi diversi approcci al fine di giungere ad una valutazione completa e precisa della sfera psicologica del paziente, consentendo così di avere una visione più ampia e globale del fenomeno che stiamo osservando, così da operare in modo più tecnico e preciso durante la fase di intervento vera e propria.